MARCO ASIEDU

Vissuti, sofferenze, emozioni. In un’unica patria: l’Italia. 

Marco Asiedu è un giovane uomo di 35 anni. È ghanese. Il suo volto e i suoi occhi esprimono gentilezza e suscitano rispetto. Anzi, qualcosa di più del semplice rispetto. È quasi come se, improvvisamente, guardando i suoi occhi, ci si trovasse davanti ad una miriade di esperienze vissute che intimoriscono, che parlano di una sofferenza che in Italia, e più in generale nel mondo occidentale, non può essere del tutto compresa.

Ma sono il suo silenzio e la sua composta ritrosia a parlare di sé, più di tutto, a provocare in chi lo ascolta quasi un senso di colpa, per non aver, in qualche modo, potuto impedire che questo giovane ghanese passasse la sua infanzia e la sua giovinezza nel dolore.

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Mentre prova a raccontarcelo, il suo dolore, Marco piange. “Sono nato in Italia, ma quando ho compiuto sei anni mi hanno riportato in Africa. Sono tornato quando ne avevo 18”. Marco è stato separato da sua madre. Dietro, c’è una storia di conflitti tra la madre e il patrigno di Marco. Una storia di brutte esperienze in Africa, dove la madre è rimasta sola. Oltre, Marco non riesce ad andare. La sua storia preferisce tenerla dentro l’anima.

Lavora in Fonderie Ariotti da sei anni. È amico di Edmund Aboagye, nella fabbrica dal 2000, ma anche di Daniel Owusu, Badu Akwasi, Nicolas Prince; tutti arrivati in Ariotti da alcuni anni. Lavora nel reparto sbavatura, un reparto difficile, dove il lavoro è molto pesante e dove c’è sempre carenza di manodopera. “Mi trovo bene – ci dice -. Ogni tanto qualcuno dice qualcosa di spiacevole, non posso negarlo, e quando questo succede mi fa male, mi sento non capito”. “Ma – riprende poi con una decisione inaspettata – se mi chiedono qual è la mia patria dico l’Italia, non il Ghana”.

Marco è riservato, quasi timido. Separa il mondo del lavoro dal suo mondo personale, nel quale fatica a far entrare gli altri. “Il lavoro per me è importante, c’è la paga a fine mese, in modo regolare, e questo è molto positivo. Anche se è dura, perché lavoro dalle sei del mattino alle quattro del pomeriggio. Ma non penso di andar via da qui”. “Il mio tempo libero lo passo giocando a calcio, ho alcuni amici ghanesi, ma non ho molti interessi per il momento”, ci racconta.

La sua abitazione è a San Pancrazio, vive solo. Con le sue emozioni, i suoi sentimenti, la sua quotidianità. Quasi uno stato di mezzo, un passaggio obbligato tra la sofferenza che ancora c’è nei suoi occhi, e che può annientare, e una personale rinascita fatta di consapevolezza, integrazione e serenità. Basta superare il muro delle proprie paure. Il percorso è già avviato.

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